Psicomotricità della Persistenza

Persistenza/per·si·stèn·za/sostantivo femminile

1. Persistenza delle immagini, la permanenza delle immagini sulla retina oltre il tempo della loro esposizione.

Dizionario della Lingua Italiana

Oggi ho avuto l’opportunità di seguire il bell’incontro di Andrea Loreni e Giulia Schiavoni, intitolato “Le radici nel cielo, la postura del funambolo come attitudine psicofisica per attraversare l’incertezza”. Assistere a questo momento di condivisione è stato un vero dono, che mi ha ulteriormente permesso di riflettere e interrogarmi sulla figura dell’educatore psicomotricista, e sulla valenza dell’educazione e della pratica psicomotoria. I racconti di Andrea e Giulia sono stati fortemente evocativi, e tramite la loro esperienza e le loro parole, ho potuto assaporare una parte della grande ricerca che hanno condotto e continuano a condurre sul funambolismo come metafora esistenziale. Il funambolo è colui che è capace di attraversare gli abissi sospeso sul cavo d’acciaio che lo collega tra il mondo del prima e quello del dopo, è colui che danza in un “mentre” che è sospeso ma presente, è colui capace di vivere nel qui e ora trasformando la sua esperienza corporea nella persistenza di un emozione reale, tangibile e radicata.

Questo vivere sospeso, ma radicato, nello spazio e nel tempo che il funambolo abita, mi ha fatto pensare molto alla figura dello psicomotricista, alla capacità che di osservare da punti di vista differenti, alla necessità di tenere ben saldo il cuore e l’attenzione su un obiettivo che ci conduce nella tempesta di emozioni che spesso si scatena nella sala, allo sguardo che deve spaziare sospeso ma sempre saldo in un presente che riempie ogni dimensione del nostro sentire e agire.

Mentre ascoltavo Andrea e Giulia ho percepito fortemente quanto questa esperienza possa imprimersi in noi in modo persistente e possa dare un senso, una rotta, una postura: nell’educare e in psicomotricità, uno sguardo che amplia l’orizzonte a livello di coscio e inconscio. Il funambolo vive nella persistenza, così come i bambini, l’educatore, il folle e lo psicomotricista. Perché è nel qui e ora, nello stare, nel librarsi nell’aria con il salto, nel secondo in cui il piede tocca il cavo, nella porta che si apre accogliendoti nella sala di psicomotricità, che si compie l’inizio del percorso che ti conduce tra tentativi di equilibri e disequilibri all’altro capo della tua esistenza, in un movimento che può andare dall’avanti all’indietro, al di sopra e al di sotto, dall’inizio alla fine e viceversa, in uno spazio ove si spiega il respiro con cui vivere, osservare, porsi domande, formulare tesi e risolvere quesiti.

Avete presente quell’elettricità che c’è nell’aria poco prima di una tempesta? Conoscete quella ansia che precede il momento dell’azione di ogni cosa? Avete mai osservato il momento preciso dove il corpo si piega e si carica di energia, il microsecondo che precede lo staccarsi da terra, i polmoni che si riempiono di aria, si raccoglie la propria forza come un elastico e poi in un attimo impercettibilmente lungo arriva il salto. Esplosione tonica di tutta l’energia del corpo, che si libera, e poi improvvisamente ritorna in noi quando ritroviamo il pavimento.

Il salto, metafora di ogni passaggio, di ogni relazione di fiducia con il mondo e con l’altro, il salto fermo immagine del volo di un corpo che per volare non è fatto.

L’equilibrio e poi il disequilibrio, la tensione e poi il rilasciamento, l’espansione e poi l’atterraggio, la poesia di un gesto che riassume il tutto, la società, la storia, l’evoluzione. L’umanità stessa è un bambino che saltella da un sasso all’altro cercando equilibri che continuano a rompersi e ricostruirsi.

Nel corso degli anni ho cercato a lungo il modo di comprendere a pieno quel momento, un momento che può sembrare alquanto banale a un osservatore disattento, ma che per uno psicomotricista racchiude il senso profondo dell’immobilità e del movimento stesso. Oggi ascoltando Andrea e Giulia ho trovato tante somiglianze tra il momento estatico del salto e il movimento del funambolo sul cavo sospeso.

Come sempre non sono neppure vicina alla fine della mia ricerca, ma nel mio puzzle personale di esperienze umane e educative, aggiungo oggi lo sguardo del funambolo, e lascio che sedimenti in me questa esperienza del mondo virtuale fino a quando il mio corpo e il tempo non saranno pronti a darmene un assaggio nella realtà.

Sospesa, tra un capo e l’altro del cavo, vivo nella permanenza. In questo qui e ora resisto alle tempeste, ai venti e alle fatiche, sapendo ciò che ogni psicomotricista ha appreso: solo esperendo le proprie fatiche, paure e gioie si può comprendere e accogliere quelle degli altri.

La Solitudine dei Servizi Educativi

Questo articolo nasce a seguito del bel lavoro di condivisione fatto oggi con altri educatori, pedagogisti e formatori grazie all’associazione Metas.

L’associazione Metas, cito dalla presentazione che trovate sul loro sito, si occupa di diffondere cultura sull’educazione e la pedagogia; creare occasioni di confronto e collaborazione tra soggetti del Mondo Profit e del Mondo No-profit, del Pubblico e del Privato, sostenere le persone in situazioni di fragilità, di difficoltà e di marginalità; favorire la messa in rete delle potenzialità e disponibilità individuali; creare occasioni formative interdisciplinari rivolte ad educatori, insegnanti, operatori sociali e volontari per il sostegno al ruolo e alle situazioni di difficoltà nelle quali questi ruoli si trovano ad operare; proporsi come luogo di incontro e di aggregazione nel nome di interessi culturali comuni assolvendo alla funzione sociale di maturazione e crescita umana e civile, attraverso l’ideale dell’educazione permanente; porsi come punto di riferimento per quanti, svantaggiati o in difficoltà, possano trovare un sollievo al proprio disagio.

Sono grata a tutte le associazioni, ai gruppi di lavoro che si stanno facendo carico di far circolare in modo consapevole il pensiero educativo, creando momenti di riflessione sull’educare in tutte le fasce d’eta.

In queste equipe dove circolano competenze e vissuti differenti si ha la possibilità di esprimere le proprie perplessità, delusioni, fatiche e anche gioie, sono momenti di forte condivisione importanti per ogni professionista

Il tema trattato oggi riguardava il corpo, e come ci sentiamo noi professionisti in questo momento di isolamento forzato, davanti alle linee guida che continuano ad avvicendarsi da parte del governo; come educare mantenendo il distanziamento sociale? Come mediare con il bambino, l’anziano, l’adulto con fragilità senza l’ausilio del proprio corpo?

Sono state molte le riflessioni bellissime a proposito, riflessioni che nascono non solo da formazione accademiche ma da una profonda conoscenza del lavoro su campo con le proprie utenze.

In questo nuovo percorso di educazione nelle distanze io mi sento spesso come l’eremita raffigurato nella carta dei tarocchi di Marsiglia, un vecchio che cammina nell’oscurità guidato dalla luce della sua sapienza e curvo su un bastone per la fatica. Quel bastone a cui si appoggia è anche il collegamento necessario tra la realtà del corpo e il mondo dell’incorporeo, collegamento tra il cielo e terra che lo àncora e allo stesso tempo gli permette di elevarsi. Come l’eremita in questo momento io procedo nel mio modo di educare, soffermandomi di tanto in tanto a condividere con altri su questo nostro cammino nella solitudine.

Perchè è difficile immaginare l’educare dietro a uno schermo, soprattutto per chi come me ha fatto della presenza, del corpo, del qui ed ora, la propria filosofia di vita. Nell’intendere la propria voce educativa nelle distanze vi sono anche dei vantaggi: si può decidere con chi condividere, si valicano le barriere dello spazio e del tempo con una facilità immediata, e tutto sembra a portata di mano.

Ma quando lo schermo filtra e media l’azione, il corpo che fine fa? Si può educare senza corpo?

Questa domanda mi tormenta, sia a livello personale che professionale. Perchè posso essere un valido sostegno a distanza per adulti senzienti ma è personalmente deleterio e controproducente affidarmi agli schermi per sostenere la relazione educativa con i bambini.

Perchè i bambini non hanno bisogno di schermi, sono corpo, carne e vissuti talmente potenti che non si possono ignorare. Quella che stiamo vivendo è una tragedia che imprimerà a fondo in ognuno di noi ferite che dovranno suppurare e essere medicate, e se i bambini in tutto questo potranno agire le loro paure e guarire le loro ferite tramite il gioco, mi domando come faranno gli adulti e tutti quelli che non sono capaci più di giocare a niente a stare bene in questo nuovo modo di essere.

La responsabilità dell’educazione non è solo dell’educatore, né del maestro o del professore. Educare è una faccenda che ci riguarda a più livelli tutti, perché è la comunità a dover essere educante, è la comunità che deve prendersi la responsabilità di colmare quella distanza tra noi e le nostre utenze, è un lavoro che per essere efficace dobbiamo fare tutti assieme.

La psicomotricità è nata nel dopoguerra come metodologia di intervento davanti ai disturbi post traumatici causati dalla guerra, oggi forse dobbiamo continuare a concentrarci sul nostro modo di “fare” educazione, perchè i danni che raccoglieremo nei prossimi anni non saranno solo i bollettini giornalieri con la conta delle morti.

Questa tragedia ha lasciato dei vuoti, colpito città e spazzato via generazioni. La paura sarà a lungo nei nostri corpi e nelle nostre memorie. Non possiamo credere che tutto torni come prima, ma altrettanto non possiamo pretendere che davanti a un tale evento tutti reagiscano nella stessa maniera, e per quanto faticoso e folle possa sembrarci dobbiamo sforzarci nuovamente di sospendere il giudizio e diventare agenti di un cambiamento fatto di buone pratiche.

Diamo l’esempio, sempre, non arrendiamoci davanti alle ingiustizie, ma forse piuttosto che ingaggiare discussioni fatte di parole, permettiamo all’esempio dei nostri gesti e dei nostri corpi di parlare per noi, non dimentichiamo mai l’insegnamento dell’eremita, la ricerca deve continuare guidata dal nostro esempio e dalla nostra buona volontà.

Continuiamo a giocare, resilienti e resistenti come papaveri che crescono nell’asfalto, continuiamo ad educare, ognuno con le risorse che può, senza dimenticare che l’unico obiettivo che ci deve guidare è la costituzione di una società migliore, di un benessere globale che per primi investe anche noi.

Il problema non sono le lacrime dei bambini, ma la capacità degli adulti di essere il fazzoletto che asciuga le loro lacrime

Nicolodi

I disturbi dello spettro Autistico

“L’autismo non è me; è solo un problema di elaborazione delle informazioni che governa quello che io sono”

Donna Williams

“L’autismo come il blu ha un’infinità di sfumature,

ogni bambino è unico, e ogni bambino autistico è prima di tutto un bambino.

Facciamo in modo che l’etichetta non vincoli il modo in cui guardiamo i bambini”

Angela De Pace, @piccolapedagogistapetulante

Il mondo dell’autismo è vasto e ricco di sfaccettature, per fare un esempio possiamo immaginarcelo come l’oceano, un immenso blu che contiene mille sfumature dello stesso colore, simili ma sempre diverse che a seconda della prospettiva e del momento in cui lo si guardano cambia.

Ad oggi gli studi identificano l’autismo come un diverso modo di funzionare, differenti modalità che confluiscono per definire una condizione che non è sempre da intendersi come “invalidante” ma, più correttamente, come un altro modo di agire, pensare e vivere.

Ogni volta in cui entriamo in relazione con un bambino, dobbiamo prima di tutto osservarlo. Tramite l’osservazione dobbiamo soffermarci sulle sue personali peculiarità. Il nostro percorso di studi e formazione può fornirci un buon punto di partenza per l’osservazione, ma non deve in nessun modo limitare il nostro giudizio e soprattutto non deve distarci dal nostro obiettivo principale: il bambino.

Osserviamo cosa gli piace, come percepisce gli stimoli, mettiamo in evidenza i suoi punti di forza e adeguiamo l’ambiente ed il modo in cui ci rivolgiamo a lui, basandoci principalmente sulla sua sfera sensoriale. Questo perché osservando la sua capacità di reagire agli stimoli saremo in grado di comprendere come agire, e avremo una prima chiave di lettura utile per impostare la nostra relazione con lui.

Instaurare una buona relazione è il primo passo per poter vedere la realtà attraverso i suoi occhi. Occorre essere sempre pronti a mettersi in discussione e adattare l’obiettivo che si vuol raggiungere ad un attività che possa esser motivante per il bambino. Per far ciò bisogna partire dai suoi interessi, cercando di rendere ogni attività accattivante, e dedicata a lui. In questo modo avremo sicuramente dei buoni risultati, a patto che si riesca ad essere pazienti, poiché ognuno ha i suoi tempi e aver fretta di vedere il risultato non porta da nessuna parte. Spesso saremo costretti a scomporre in piccoli passaggi l’attività, suddividendo l’obiettivo finale in tanti piccoli step, niente è impossibile, bisogna solo esser costanti e credere nelle potenzialità del bambino.


Tendenzialmente io penso che nessun metodo possa essere preso alla lettera, ogni percorso ed intervento educativo deve essere realizzato in base alle esigenze di quel particolare bambino e deve nascere dalla collaborazione di tutta la rete educativa e familiare che ruota attorno a lui. Ogni progetto deve poter comprendere e soddisfare le esigenze del bambino tenendo conto dei vari contesti che frequenta. Non è semplice creare e coordinare una rete solida, ma l’unione delle forze di più professionisti con quelle dei genitori in un continuo confronto, può essere molto stimolante e costruttiva.


Un altro aspetto da non sottovalutare è l’importanza del sostegno rivolto alla famiglia che ogni giorno si confronta con le gioie e i dolori dello spettro autistico. I genitori non hanno “ferie”, sono “sempre in servizio”, ogni giorno devono esser pronti a soddisfare ed interpretare le esigenze dei propri bambini e prevenirne le crisi. Queste fatiche vanno accolte dagli operatori che affiancano la famiglia. Prendersi cura del contesto in cui il bambino è inserito è essenziale per per il superamento del disagio del bambino in tutte le sue variabili. Proprio per questo chi lavora con un bambino autistico, lavora con tutta la sua famiglia, e deve fornire costantemente gli strumenti e le indicazioni migliori, per gestire la quotidianità.

Angela De Pace è una pedagogista che ha conseguito la laurea triennale in scienze dell’educazione e la laurea magistrale in scienze pedagogiche, ha seguito un corso sul disturbo dello spettro autistico ed un master sui disturbi dell’apprendimento. Angela è stata per diversi anni volontaria in ospedale nel reparto di pediatria, ha lavorato con minori a rischio, con disabili adulti e minori, tra cui molti ragazzi autistici. Nel corso degli anni ha formato la sua professionalità ricercando gli strumenti migliori per approcciarsi al mondo dei disturbi dello spettro autistico. Angela mette sempre molta passione e amore nel suo lavoro, un lavoro che si basa su una vocazione profonda: dare voce ai bambini, e permettere alle famiglie una vita serena tramite l’accorgimento di strategie divertenti e accattivanti.

Il pedagogista é un professionista che ha conseguito una laurea magistrale in ambito educativo; si occupa dei processi educativi e formativi, può progettare, coordinare, realizzare e valutare interventi educativi e formativi diretti alla persona in tutte le sue fasce d’età, a partire dai bambini, comprendendo adolescenti, adulti fino ad arrivare agli anziani. Ogni pedagogista si specializza in un particolare ambito. Per quanto mi riguarda mi occupo di infanzia e di autismo. Il pedagogista non è una figura associata solamente a problematiche particolari, o patologiche, si tratta di una figura professionale di supporto per tutti i genitori, per poter capire meglio cosa c’è alla base di un comportamento del proprio bambino, una guida nel meraviglioso ma difficilissimo ruolo genitoriale.

Sui social Angela De Pace è @piccolapedagogistapetulante, un supporto concreto ai genitori, tramite consulenze personalizzate e attraverso la condivisione di attività educative per bambini di varie fasce d’età. Fornisce quotidianamente pillole pedagogiche e spunti di riflessione per tutti.

Strumenti Educativi: Il Cestino dei Tesori

Dalla preziosa collaborazione con Daniela Tonazzolli, in arte @the_cattanis nasce il primo articolo della rubrica “Strumenti Educativi” un indispensabile vademecum per genitori, nonni, educatori, studenti e operatori del settore infanzia.

Daniela Tonazzolli è educatrice e mamma di due bambine: Sofia e Olivia. 

Il suo stile educativo è un mix degli approcci che predilige, spaziano dal metodo Montessori al Reggio Emilia Approach, e raccolgono preziosi spunti nei modelli educativi conosciuti all’estero specialmente nei paesi in cui ha vissuto: Olanda, Austria e Inghilterra. Daniela crede fermamente che gli estremismi non siano una buona scelta nella vita, per questo il suo pensiero educativo è pieno di spunti teorici e pratici di molteplici autori.

Nella mia quotidianità, con le mie bambine, cerco il più possibile di discostarmi da modelli educativi rigidi e severi. Per me un’altra educazione è possibile, ma può esistere solo accompagnata da un continuo lavoro di riflessione su noi stessi e sul nostro ruolo di genitori ed educatori.

Daniela Tonazzolli

“Il bambino​ non è un vaso​ da riempire, ma un fuoco da accendere.”

François Rabelais

Quando i bambini imparano a sedersi, all’incirca dai sei mesi in poi, cominciano a vedere il mondo da una nuova prospettiva diversa, osservano molte cose che prima gli erano invisibili. Tutto ciò è eccitante ma può anche essere frustrante, poiché i bambini notano oggetti e attività che spesso sono fuori la loro portata. Per assecondare questo desiderio di scoperta l’adulto può introdurre all’interno dello spazio di gioco del bambino il “cestino dei tesori”, un importante strumento educativo che offre al bambino uno spazio di esplorazione sensoriale alla sua portata.

Il concetto di Cestino dei tesori e’ stato inventato da Elinor Goldschmied negli anni novanta. Ultimamente molti fanno confusione attribuendo la maternità del cestino a Maria Montessori, sebbene non ne sia la diretta inventrice, esso è stato adottato dal metodo Montessori proprio per la sua efficacia e innovazione educativa. E’ un’idea semplice ma profonda: offrire “il Mondo”, che il bambino non può ancora esplorare, in un cestino. I materiali proposti all’interno del cestino sono definiti “vivi” essi sono per la maggior parte di origine naturale, questo per offrire al bambino un ampia esperienza sensoriale, in contrapposizione con la tendenza attuale del “giocattolo in plastica” vero protagonista dei prodotti venduti oggi per la prima infanzia

Elinor Goldschmied afferma: “quando pianifichiamo la dieta di un bambino, prestiamo grande attenzione al suo menù, offrendo la gamma e la qualità essenziali per la sua nutrizione quotidiana e la sua rapida crescita. Ma che dire della sua dieta mentale, che alimenta la sua capacità di usare occhi, mani e bocca in attività concentrate? ”

Il cestino del tesoro permette ai bambini di:
• esplorare oggetti naturali, trame e colori, usando tutti i sensi
• sviluppare attenzione e concentrazione
• esercitarsi e perfezionare il controllo motorio e coordinazione occhio / mano • fare scelte semplici e sviluppare preferenze
• esplorare e sviluppare schemi di sviluppo o di modi di apprendimento.

Il Cestino dei tesori contiene una raccolta di oggetti che sono solitamente naturali o realizzati con materiali naturali, oggetti di uso comune che si possono trovare nelle case dei bambini. Elinor Goldschmied consigliava di inserirne 80-100.
Ciò consente loro di esplorare le trame, il gusto, l’olfatto e il suono degli oggetti, non solo il loro aspetto.

Una volta che osserverete il vostro bambino interagire con il Cestino dei tesori noterete immediatamente la forza di questa attivitá.
I bambini sono spesso assorti nel gioco, possono concentrarsi su di esso per lunghi periodi di tempo selezionando, maneggiando, esplorando gli oggetti con il loro corpo. Il Cestino è solitamente fatto con materiali naturali come vimini, rafia o corda. Ha un fondo ampio e un’apertura abbastanza larga da consentire ai bambini di raggiungere gli oggetti senza difficoltà. Deve essere abbastanza stabile e forte da reggere il peso del bambino poiché capita spesso che ci si appoggino con le braccia sul bordo, inoltre non deve essere troppo alto per permettere al bambino di accedervi in autonomia.

Elinor Goldschmied raccomandava un cestino di circa 35 cm di diametro e circa 12 di altezza.
Durante il gioco capita spesso che i bambini piccoli cerchino di mantenere un contatto visivo con l’adulto, Elinor Goldschmied identifica quello sguardo come “compagnia amichevole e ancora affettiva” .

Durante il gioco i bambini hanno la possibilità di essere indipendenti, spesso impegnandosi per lunghi periodi con gli oggetti nel loro cestino e sicuri nella consapevolezza che un adulto si trova nelle vicinanze. Gli adulti dovrebbero essere attenti durante le sessioni del cestino del tesoro, ma non intervenire, tranne per garantire la sicurezza, e dare risposta allo sguardo e agli input del bambino.


I Cestini dei tesori possono essere proposti anche ai bambini un pó più grandi, anche dopo che iniziano a camminare e fin quando essi mostrano interesse. Possono essere di varie forme e dimensioni, con divisori o non. L’importante é ripensare, aggiornare il loro contenuto in base alle competenze dei bambini.
Per i bambini più grandi è un importante mezzo di supporto degli schemi di sviluppo. Gli schemi sono generalmente descritti come modelli di comportamento generalizzati, comportamenti ripetuti che osserviamo mentre guardiamo i bambini giocare e indagare su ciò che li circonda.
Gli schemi non appaiono in un ordine particolare: alcuni bambini mostrano di avere più schemi diversi contemporaneamente.

Ecco alcuni esempi di schema di gioco che si possono osservare nei bambini più grandi dai 18 mesi in poi:

•trasporto (trasportare oggetti da un luogo all’altro)
•posizionamento (posizionare degli oggetti con attenzione)
•orientamento (rotazione e posizionamento degli oggetti)
•orizzontalità, verticalità, diagonalità, circolarità (nelle costruzioni, disegno)

•recinzione, creazione di recinzioni con blocchi, recinti, e contenimento mettere le cose in sacchetti, impacchettare cose

•rotazione (girare chiavi, manopole, rubinetti)
•connessione (unendo le cose insieme)
•ordinamento

I bambini con disabilità o con bisogni educativi speciali possono trovare nel cestino dei tesori una fantastica risorsa da esplorare. Non c’e giusto o sbagliato, ogni oggetto non ha il manuale di istruzioni . Sia che il bambino abbia una moderata o severa disabilità fisica o difficoltà nell’apprendimento, l’uso di una piccola collezione specifica di oggetti può aiutare a soddisfare specifici bisogni sensoriali o di manipolazione.

In ultimo, ma non meno importante, gli oggetti del cestino dei tesori devono essere controllati e puliti regolarmente. Gli oggetti rotti o rovinati devono essere rimossi e/o sostituiti.

Per chi fosse interessato, c’è un meraviglioso filmato in “Discovered Treasure”, in cui si vede Elinor Goldschmied mentre parla del suo cestino. In alternativa, su youtube si può ancora trovare: “I don’t need toys”, un filmato creato da Elinor Goldschmied e ​Anita Hughes dove spiegano l’importanza del cestino e del gioco euristico.

Piccola curiositá, non molti sanno che nella primavera del 2018 è stato ritrovato il cestino dei tesori personale di Elinor Goldschmied. Alcuni oggetti sono stati persi e altri si sono rovinati, ma i ricercatori sono riusciti a salvarne circa una sessantina. Danno un’idea all’osservatore della varietà di oggetti che Elinor aveva collezionato, e con i quali i bambini hanno giocato. Questo cestino è stato donato dalla famiglia Goldschmied al Froebel Trust, e potete ammirarlo all’università di ​ Roehampton.

Educazione Psicomotoria, un’opportunità per una crescita armoniosa e serena

“L’uomo non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare”

Bernard Shaw

Il gioco psicomotorio rappresenta un’ opportunità di crescita e benessere per ogni bambino. Durante i laboratori egli è libero di esprimere se stesso all’interno di uno spazio attentamente predisposto per lui. 

Il ruolo dello psicomotricista è principalmente quello di osservatore partecipante del suo gioco, un gioco di cui è ideatore e protagonista il bambino stesso. Per questo motivo la predisposizione dello spazio è molto importante, perché l’ambiente, la stanza adibita alla psicomotricità e la cura con cui vengono scelti i materiali proposti, rappresenta uno dei principali attori della seduta di educazione psicomotoria. 

Lo psicomotricista osserva, partecipa al gioco, conosce la relazione tra materiali e gioco ma non giudica ne pregiudica l’andamento della seduta. Le uniche regole a cui il bambino si deve attenere durante il laboratorio sono tre: non farsi male, non distruggere e non fare male agli altri. 

Il rispetto della personalità del bambino e dei suoi tempi passano da uno sguardo attivo che porta lo psicomotricista a comprendere senza giudicare, adeguando l’ambiente e i materiali proposti alle varie e mutevoli necessità che il piccolo può portare all’interno della seduta. 

L’osservazione e l’ascolto delle emozioni rappresentano gli elementi fondanti della relazione tra psicomotricista e bambino, la possibilità di esprimere se stesso in uno spazio avulso dal giudizio favorisce la creazione di una relazione di fiducia.